L'EUROPA E LE SUE RELIGIONI
La confusione dei "monoteismi"
Da molti secoli ormai l’Europa ha a che fare con l’islam, da quando, dopo che la Siria e la Palestina furono invase dalle tribù arabe tra il 633 e 640, le orde musulmane passarono in Egitto dando inizio all’avventura della conquista del Mediterraneo. A Gerusalemme, al-Quds, “la Santa”, nel 687, sulla roccia del Moriah eressero la grande cupola dorata, in concorrenza con quella dell’Anastasis, la basilica cristiana della Risurrezione; poi, cominciarono ad invadere l’antica provincia romana d’Africa, comprendente la Tripolitania, la Tunisia e l’Algeria attuali. Durante il concilio di Toledo, nel 694, era stato dato un inutile allarme; l’occupazione della penisola iberica avvenne in un lampo. Fu poi la volta delle Gallie, con l’occupazione di Narbona, Tolosa e la creazione del mito della battaglia di Poitiers che non arrestò gli invasori che proseguirono verso Avignone, Arles, dilagando in tutta la Provenza. L’eco delle guerre tra Franchi e musulmani si amplificò nella letteratura epica, con le gesta dei Paladini nella celeberrima battaglia di Roncisvalle del 788.
Qualche decennio dopo la dinastia aghlabita occupava la Sicilia bizantina, a partire dalla località vicina all’antica Lilibeum che venne chiamata Mazār (che in arabo significa tomba o mausoleo, ma anche dono offerto da un sottoposto ad un suo superiore), mentre la stessa Lilibeo venne rinominata Mars Allah, ossia porto di Dio. Era l’estate dell’827; nell’846 i saraceni giunsero ad Ostia, risalirono il Tevere ed entrarono nel cuore della cristianità fino a darsi al saccheggio della basilica di san Pietro. Erano passati poco più di due secoli dalla famosa battaglia di Badr in cui le truppe maomettane avevano vinto contro le meccane; quella che inizialmente era stata la tattica delle razzie tribali beduine, degli attacchi organizzati contro i convogli dei commercianti meccani, per depredarli e sbarcare così il lunario, era diventata una forma bellica istituzionale consistente nella sottomissione militare dei popoli per il riconoscimento dell’unico Dio e del suo profeta.
Come ha sottolineato Franco Cardini nel suo libro Europa e islam, storia di un malinteso (Laterza 2007), sono ancora troppe le incognite da risolvere per valutare distesamente il rapporto tra ciò che convenzionalmente si chiama Europa e ciò che genericamente si chiama islam; un’ Europa che, nel rapporto, viene indistintamente identificata col cristianesimo e un’islam che non è mera entità geografica definita né esclusivamente una religione. Però, si può aggiungere, la forza di propulsione che ha spinto popoli così lontani e diversi culturalmente da noi a varcare mari e monti per conquistare spazi geografici vastissimi, sembra avere una valenza prevalentemente religiosa, tesa alla propagazione di una fede, di un credo determinato, in contrapposizione ad altra religione ipostatizzata in altra cultura, ieri quella europea, identificata come cristiana, oggi quella del mondo “pagano” e “globalizzato” considerato demoniaco.
Sin dal suo sorgere l’islam ha trovato dentro di se, all’interno della sua indistricabile struttura, fatta di convinzione religiosa e progetto politico ad un tempo, la forza motivante che ha condotto i suoi seguaci allo scontro frontale contro tutto ciò che non fosse islam, contro tutto ciò che non rientrasse nei suoi parametri socio-religiosi. Nei territori arabi di partenza fu facile spazzare via le piccole ed insicure comunità ebraiche e cristiane incamerandone i beni; la violenza è stata parte integrante dell’islam nascente per il semplice fatto che, secondo quel credo, non ci si può rifiutare di aderire alla “vera religione” né la si può rinnegare impunemente. E’, questa, una tesi dimostrata da Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, uno dei maggiori esperti di islamologia a livello internazionale. Nel libro-intervista Cento domande sull’islam (Marietti 2002) egli analizza il tema della violenza nella vita di Maometto e nel corano per confutare l’affermazione diffusa in Occidente secondo cui la violenza che vediamo oggi costituirebbe una deformazione dell’islam. Puntualizza, invece, che ci sono ambiguità all’interno dello stesso corano, versetti tra loro contraddittori. Esistono, in effetti, due letture del corano e della sunna: una lettura legittima che opta per i versetti che invitano alla tolleranza nei confronti degli altri credenti - ebrei e cristiani - accanto ad una seconda lettura, altrettanto legittima, che preferisce i versetti che invitano al conflitto. «In Egitto, è molto diffusa l’opinione secondo cui il versetto della Spada [guerra santa] ha abrogato […] tutti quelli pacifici […] E’ questa l’ambiguità dell’islam […] che la violenza ne fa parte, ma è lecito anche fare la scelta della tolleranza; che la tolleranza ne fa parte ma è anche lecito fare la scelta della violenza» (ibid. p. 43). Un bel rompicapo esegetico se si considera il testo nella sua pretesa di unitarietà rivelativa. Una ambiguità da sfruttare di volta in volta, quando si vuol far vincere una tesi piuttosto che l’altra e suffragata da un principio teologico di stampo sofistico, detto “dell’abrogante”: Dio, cioè, dopo aver dato un ordine può dare l’ordine opposto. Nel versetto 106 della sura della Vacca si fa dire a Dio: «Non abroghiamo un versetto né te lo facciamo dimenticare senza dartene uno migliore o uguale. Non sai che Dio è onnipotente?». Allo stato attuale delle cose, però, le scuole di pensiero islamiche non sono concordi nel dire quali versetti hanno abrogato altri versetti, né si decidono per un criterio esegetico unanime e oggettivo. La conclusione di padre Samir Khalil Samir è che sfruttando tale ambiguità l'islam si presenta al mondo come tollerante, per poter poi conquistare il mondo degli infedeli tramite la Spada che costituisce la sua natura intrinseca.
E comunque queste appaiono questioni di poco conto. Tutto va bene! Nonostante stragi e abbondante spargimento di sangue pare che non ci sia in atto alcuna “guerra di religione”. Anzi: a testimonianza della eirenica volontà di dialogo fraterno un nuovo progetto religioso si ascrive alla vocazione metropolitana di Berlino, città faro d'Europa e demolitrice di muri. Sulle pagine de La lettura del Corriere della sera del 10 luglio u. s., viene ricaldeggiato il progetto, ideato alcuni anni or sono, della costruzione di un mega edificio di culto polivalente, con l’obiettivo di «far cadere i muri tra le religioni monoteistiche, come s’è fatto cadere il muro di Berlino; abbattere le barriere tra fedi in nome di una religione aperta, tollerante, senza riserve sull’uguaglianza tra uomo e donna, sui diritti degli omosessuali e sul dialogo tra fedi diverse». Ma c’è di più, assicura Marco Ventura autore dell’articolo: «Se il progetto diventerà realtà, non si tratterà dell’unione in preghiera di tre antiche religioni. Sarà invece il segno, l’ennesimo, dell’inizio di una nuova super-religione. Tre in uno, appunto»!
Che dire? Davanti a simili prospettive idilliache quanto ingenue si resta senza parole. Ma è pur doveroso dire qualcosa di realistico per sfatare una visione utopica che ha luogo nelle menti dei più, dei moltissimi che sicuramente sono condotti, sull’onda emotiva delle tragedie che in questi ultimi tempi stanno insanguinando il mondo, a sperare in un futuro migliore sotto gli auspici di una super-religione che agisca positivamente laddove politica, economia, scienza, progresso, religioni istituzionali hanno fallito. Ma tali chimeriche speranze poggiano tutte sull’ignoranza del fenomeno religioso e sulla scarsissima conoscenza di cristianesimo, ebraismo ed islamismo di cui si possiedono informazioni “per sentito dire”, da quando, almeno, anche la consapevolezza del fatto religioso è svanita col galoppante processo della secolarizzazione. Di fatto era impensabile, rammenta il nostro articolista, riedificare una chiesa cristiana sull’area di sedime di una più antica chiesa del XIII secolo, distrutta dai comunisti negli anni Sessanta, senza «ferire l’opinione pubblica maggioritariamente atea di Berlino; troppo difficile ottenere soldi pubblici e privati». Da qui l’escamotage del ricorso alla super-religione, che implicitamente equivale all’azzeramento delle fedi in questione, alla loro “riduzione” in stato unitario sincretico e all’immissione del nuovo “prodotto” religioso sul mercato globale. E questa non è un’utopia: è semplice follia! Anzitutto perché le tre fedi in questione non sono facilmente omologabili, né compatibili. E, si badi bene, stiamo parlando di “fede”, non di “religione” che non è la stessa cosa. La religione è un fatto istituzionale, una certa forma data alla fede, una forma più o meno malleabile e comunque sempre relazionabile a dati culturali. La fede invece inerisce essenzialmente ad un fatto di ordine meta-culturale che filosoficamente è individuabile con la questione della Verità che non può essere che una in quanto riguarda la fonte, l’essenza, il fine della vita, il senso, lo scopo, il valore dell’esistenza per dirla in breve. Il problema reale nel rapporto dialogico tra le religioni, anche per le tre cosiddette “monoteistiche” in oggetto, nasce non tanto nella ricerca di punti comuni, che sul piano della concrezione sociale sono pur rinvenibili, quanto proprio in relazione alla verità che ciascuna cerca o che ritiene di possedere; perché in ciascuna, la verità, ha manifestazioni differenti che partono da differenti presupposti e approdano a diverse visioni del mondo, della storia, dell’essenza dell’uomo perché in definitiva scaturiscono da una diversa visione di Dio. Soltanto restando nell’alveo di una generica, ottimistica, allegra e speranzosa genericità si può affermare a cuor leggero che cristianesimo, ebraismo ed islamismo credono nello stesso Dio. E questo è uno dei tanti luoghi comuni di cui si pasce ignara l’opinione pubblica. Cerchiamo di spiegare la questione in termini semplici, senza far ricorso ai contorsionismi teologici che cercano di salvare il principio del politically correct, diventato ai nostri giorni un dogma sociologico che consiste nel considerare la bugia “economia della verità”, perché il dirla tutta, la verità, potrebbe essere spiacevole e potrebbe incrinare già precari equilibri.
Restando alle tre religioni “monoteistiche”, l’auspicato dialogo dovrebbe nascere dal riconoscimento della comune ispirazione a quel retaggio biblico che in qualche modo le ha generate. Un retaggio di impronta semitica che ha fornito loro il primo imprinting culturale oltre che religioso, nel riferimento, almeno, alla comune ascendenza abramitica. Che i «dieci comandamenti» siano delle linee guida condivisibili non è difficile da accettare; ed anzi si tratta di linnee etiche condivisibili anzitutto sul piano antropologico da tutte le culture, a meno che qualcuna non stabilisca autonomamente che è lecito uccidere, rubare, mentire e sfruttare i propri simili. Di fatto i dieci comandamenti, i cui primi tre riguardano l’unicità di Dio e la necessità della sua adorazione, sono delle piste antropologiche, non degli obblighi, anche se quelle proposizioni, per il loro alto valore etico, sono divenute regole giuridiche vincolanti per cui chi uccide, chi ruba, chi danneggia gli altri e dice il falso viene punito dalla legge. Su questo le tre religioni monoteistiche non possono non concordare e il dialogo sarebbe davvero a portata di mano, e potrebbe anzi necessariamente dar luogo ad una sorta di “fusione nucleare” di stampo spirituale, pacificante, esaltante, arricchente. Ma così non è né può essere! Perché?
Anzitutto a causa di quel subdolo antisemitismo che ha segnato cristianesimo ed islam nel corso della storia. Atteggiamento tanto più assurdo per i musulmani arabi in quanto semiti a pieno titolo anch’essi, figli di Abramo, ismaeliti, ritagliati nella stessa circoncisione e comunque parte integrante del panorama etnico biblico. Ma il risentimento dei popoli arabi, anche prima della nascita dell’islam, nei confronti dei discendenti del figlio legittimo di Abramo non si è mai sopito. Secondo George Steiner, etnicamente ma non culturalmente ebreo, tale risentimento, condiviso dai cristiani, nasce dal fatto che sono stati gli ebrei ad “inventare” il monoteismo, «la cosa meno naturale che ci sia»; non gli si perdona di «aver generato Dio». Il resto del mondo non gli perdona l’abolizione del politeismo «naturale, logico, meravigliosamente gioioso» che in fondo non è mai morto ed è ancora vivo e vegeto ai nostri giorni. E così «un grido di protesta si leva contro la scocciatura morale rappresentata dall’ebraismo» (cfr. G. Steiner, La passione per l’assoluto, Garzanti 2015, 42-43), unitamente alla scocciatura economica, visto che gli ebrei tengono ben salde da tempo le redini della finanza mondiale.
Poi, perché ciascuna delle tre religioni ha dilatato la griglia essenziale dei dieci comandamenti nella misura proporzionale alla consistenza della propria portata istituzionale che esige sempre una sua visibilità sociale, politica, culturale che implica esercizio di potere, temporale o spirituale che sia; esercizio di soggezione, brama di privilegio, rispetto, esenzioni, venerazione, norme al limite, il più delle volte, con l’idolatria che i primi tre comandamenti contemplano come rimedio al rischio necessario che Dio ha voluto correre nel rapporto con l’umanità. Perché tutto, in definitiva, dipende dal corretto rapporto con Lui. Si può a volte ritenere di credere in Dio quando in realtà si crede solo nella religione, nelle sue istituzioni, nelle proposizioni morali sclerotizzate dal tempo. Si può pensare di fare la volontà di Dio obbedendo a precetti che in realtà non sono suoi ma solo invenzione degli uomini. E’ stato questo il rimprovero mosso da Cristo al fariseismo del suo tempo, il rilievo essenziale che ha causato l’incrinatura tra cristianesimo ed ebraismo. E’ la questione che riguarda il “modo” di credere in Dio scaturente da una concezione giusta o errata di Lui. E qui le cose cominciano ad intricarsi, le ermeneutiche ad ingarbugliarsi, le prospettive a farsi più fosche, perché il rapporto con Dio, dico il rapporto del singolo credente con il suo Dio, oltre ad essere un intimo fatto spirituale è un atteggiamento consequenziale, un modo d’essere plasmato dall’atto rivelativo della religione di pertinenza e sancito negli scritti canonici della “rivelazione” di riferimento, per cui si devono tirare in ballo la bibbia, il vangelo e gli scritti neotestamentari, il corano come bussole di orientamento per l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo.
L’antico testamento biblico è sicuramente il punto di riferimento comune dei tre “monoteismi” ma il modo di interpretarlo da parte di ognuno ha assunto forme religiose completamente differenti se non assolutamente divergenti. L’ebraismo vive ancora la sua fede nell’unico Dio nell’attesa del Messia in cui si adempiranno le promesse salvifiche, mentre il cristianesimo crede compiute tutte le scritture e realizzate le promesse nella persona di Gesù Cristo nel cui stesso nome si rivela la presenza messianica in maniera sovrabbondante, come incarnazione e unzione divina nella persona di Gesù di Nazaret. Ciò che per l’islam è abominio, stante la sua origine storica dalla rielaborazione confusa di eresie cristiane, come il monofisismo, che negavano la natura divina di Gesù Cristo. E ciò anche per l’ebraismo è bestemmia perché Gesù di Nazaret è stato giudicato falso messia da un legittimo tribunale giudaico. Da queste posizioni, qui schematizzate al massimo, si evince l’inconciliabilità teologica dei tre “monoteismi”.
Tuttavia ciò non inficerebbe la possibilità di dialogo a partire dalla comune griglia antropologica dei dieci comandamenti se l’islam non si fosse arrogato, sin dal suo sorgere, il compito della difesa ad oltranza dei primi tre comandamenti che riguardano Dio, la sua unicità, la sua santità, il dovere di rendergli culto. E ciò è stato sancito nel suo statuto rivelativo, il corano, un libro che come semplice codice di comportamento religioso differisce notevolmente dalla rivelazione evangelica avvenuta sei secoli prima. Quasi Dio ci avesse ripensato e avesse smentito se stesso. Quasi Dio avesse rinserrato le maglie della sua misericordia sostituendole con un setaccio fitto dal quale nessun moscerino può scappare. Non si può conciliare l’amore per il nemico predicato da Gesù Cristo nei vangeli con l’odio e la violenza che il corano indica come unica via privilegiata per adempiere i precetti divini da parte di ogni musulmano. Pensare alla proclamazione delle “beatitudini” evangeliche all’interno dell’edificio berlinese e alla recita dei versetti coranici che incitano a combattere ed uccidere per la causa di Allah è una contraddizione che gli estensori del fantareligioso progetto non hanno tenuto in considerazione. Mentre il Dio cristiano proclama beati i miti e gli operatori di pace e condanna ogni forma di violenza senza possibilità di replica, quello dei musulmani incita alla cavalcata bellica con la scimitarra in pugno per tagliare la testa agli infedeli. Si tratta dello stesso Dio? Evidentemente no!Per il testo coranico però i ripensamenti di Dio non sono eccezioni. Rientrano nella norma. Essendo egli il padrone assoluto della sua parola la può liberamente alterare o abrogare in base alla sua misteriosa volontà. Nella casistica delle sostanziali variazioni della parola divina rientrarono anche i famosi “versetti satanici” che per suggestione diabolica sarebbero stati inseriti nella sura della Stella (53) e poi rimossi perché riconosciuti non canonici. Ma si trattò veramente di un’unica diabolica suggestione? di un’unica svista? di un’unica isolata tentazione? Da dove proviene tutto il rancore e la sete di vendetta che trasuda da quel testo? Si tratterà di contingenze culturali vergate come escrescenze redazionali o tutti i riferimenti alla violenza sono sostanziali dell’atto rivelativo? I musulmani non hanno mai applicato il metodo storico-critico come i cristiani hanno fatto con la bibbia, per cui la seconda ipotesi è quella da loro sostenuta, anzi corroborata dalla teoria teologica dell’intangibilità di quel testo che può variare sicut Deus vult, declamando misericordia come suo attributo liturgico ma incitando ad una implacabile vendetta nei confronti di quanti non si sottomettono al dominio politico della nuova fede e restando sostanzialmente ancorato a regole culturali di popoli nomadi del VII secolo dopo Cristo.
Stando alla piega che l’osservanza puntigliosa del corano ha preso negli ultimi tempi da parte dei musulmani che eufemisticamente vengono chiamati “fondamentalisti”, è sensato pensare che la violenza emergente da quel testo sia il vincolo arcaico e tribale che lega spiritualità e agire politico nel mondo musulmano e che la violenza nasca col suo stesso atto di fondazione, come afferma il poeta siriano-libanese Adonis nel saggio-intervista Violenza e Islam (Guanda 2015). Tutte le manifestazioni sociopolitiche dell’islam si propongono come un che di arcaico, di tribale, di incivile, di inumano, dagli omicidi cruenti e spietati del forsennato "califfato" alle modalità barbare con le quali il sultano turco Erdogan tratta i suoi oppositori politici. Si avverte in queste manifestazioni un che di diabolico, un odio viscerale per il genere umano che non può venire da Dio, né dal Dio biblico né dal Dio Padre di Gesù Cristo. Tutto ha un sapore meramente pagano, di un paganesimo cinico e in definitiva ateo.
Cosa potrebbe accomunare i fedeli radunati per il culto in quell’edificio cultuale di Berlino? La recita dello Shemà, preghiera che gli ebrei osservanti recitano ancor oggi al mattino e alla sera? Preghiera squisitamente monoteistica e precedente la rivelazione cristiana e quella islamica: «Ascolta, Israele: Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo! Amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Dt 6,4); e magari con la sottolineatura cristiana «e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27) ripresa dal libro del Levitico (19, 18). Quale Dio? Quale prossimo?
Non servono le distinzioni ragionate sociologicamente sulle radici politico-religiose del fondamentalismo islamico né la reiterazione dei luoghi comuni che ribadiscono la violenza dei cristiani nel corso della storia per affermare una pariteticità etica delle due religioni, e senza una distinzione: se i cristiani sono stati violenti è perché hanno tradito il vangelo, non l’hanno più ascoltato, lo hanno travisato. Gli atti violenti dei musulmani obbediscono invece ai precetti del corano. Nel vangelo l’amore del prossimo e del nemico non appaiono come una svista redazionale; ne costituiscono sostanza. Né l’amore per chi non condivide la stessa fede può portare il cristiano a tacere sul fatto che è falso affermare che la divinità in cui l’islam crede sia lo stesso Dio cristiano. Nessuno può affermarlo a cuor leggero e nessuno che abbia cognizione scientifica dei fenomeni religiosi può asserirlo con cognizione di causa. Queste fedi sono relazionalmente asimmetriche.
E però tutto questo deve avere una spiegazione, e ce l’ha sia sul piano teologico in cui con la rivelazione giudaico cristiana non è difficile dimostrare l’odio di Satana contro il genere umano, la sua natura di «accusatore», la perversità del suo progetto di divisione e disorientamento a partire da una volontà di potenza che pur di affermarsi non si fa scrupolo di distruggere tutto ciò che trova sul suo cammino. Ma tutto ciò ha una spiegazione anche sul piano antropologico, come mostra René Girard nel suo illuminante saggio Vedo Satana cadere come la folgore (Adelphi 2001) dove approfondisce il tema a lui caro della violenza sacrale e nel quale mostra come i vangeli altro non siano che chiarimento illuminante della dinamica del mistero di iniquità in cui l’umanità è immersa dal momento che ha deciso di farsi governare dal «principe di questo mondo». E se ci si pensa i risultati del paganesimo ateo della nostra epoca non differiscono poi molto da quelli prodotti dal fondamentalismo islamico o da qualsiasi altro estremismo radicalizzato. E ciò perché non s’è appresa né si vuole apprendere la lezione dataci dai totalitarismi del XX secolo prolungatasi e riprodottasi in quelli attualmente deliranti col tacito e colpevole consenso del consesso internazionale, quello dei popoli “civili” e “democratici”. Per cui è solo questione di bandiera; nera o rossa che sia, con stelle, lune o falci, strisce o martelli. Sono tutte emblemi del “principe di questo mondo”.
E qui bisogna tornare alle illuminanti pagine di Girard e alla sue considerazioni antropologiche su Satana che in conclusione costituiscono una sorta d’apologia implicita del cristianesimo, ed è meglio precisare: della fede cristiana dal suo atto rivelativo, stante che, per Girard «le chiese cristiane hanno preso tardi coscienza della loro mancanza di carità, della loro connivenza con l’ordine stabilito, nel mondo perennemente “sacrificale” di ieri e di oggi. Esse rimangono particolarmente vulnerabili al perenne ricatto cui il neopaganesimo contemporaneo le sottopone» (Ibid., 236). La sua tesi ruota esclusivamente intorno all’oggetto della sua scoperta, ciò che ha chiamato «desiderio mimetico» la cui natura dà ragione del comportamento solitamente cattivo dei rapporti umani, fatto non preso molto sul serio dalle scienze sociali che leggono la discordia non come un fenomeno “normale” ma del tutto accidentale e così imprevedibile da non tenerne conto nello studio della cultura: «Non solamente noi siamo ciechi alle rivalità mimetiche del nostro mondo, ma le glorifichiamo ogni volta che celebriamo il potere dei nostri desideri. Siamo soddisfatti di racchiudere dentro di noi un desiderio che ha “l’espansione delle cose infinite”, ma non vediamo ciò che tale infinito nasconde, l’idolatria del nostro prossimo, la quale è necessariamente associata all’idolatria di noi stessi, formando con essa un dissonante connubio» (Ivi, 30).
Stando così le cose l’antidoto biblico consiste nell’inibizione del “desiderio” di tutto ciò che appartiene all’altro, oggetto del decimo comandamento, ed anzi nell’esortazione ad amarlo come se stesso, che è come dire: «Lo amerai né più né meno di te stesso». Qui risiede per Girard la superiorità della rivelazione giudeo-cristiana, e la consistenza essenziale della forma religiosa. Ogni religione che si allontana da questo orizzonte primordiale ed escatologico ad un tempo, precipita nell’idolatria di sé plasmandosi una divinità a sua immagine e somiglianza. I vangeli non sono che sottolineatura di questo semplice assioma ed anzi rivelano «tutto quello di cui gli uomini hanno bisogno per comprendere la loro responsabilità nelle infinite violenze della storia umana e nelle religioni menzognere che ne derivano» (Ivi, 168).
Il cristianesimo, inoltre, con la morte in croce di Cristo, dichiara chiusa la rivalsa provocata dall’istinto di violenza mimetica, la logica del “capro espiatorio” considerato colpevole dalla violenza collettiva, affermando nella verità dei fatti l’innocenza di Gesù Cristo che fino alla fine risponde alla violenza fattagli col perdono dei suoi carnefici che in ogni epoca della storia uccidono perché «non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). «Rappresentare la violenza collettiva in maniera esatta, come fanno i vangeli - afferma Girard - significa negarle il valore religioso positivo che invece le accordano i miti, significa contemplarla nel suo orrore puramente umano e moralmente deprecabile, significa liberarsi dell’illusione mitica che trasforma la violenza in un’azione lodevole e sacra perché utile alla comunità, oppure la espelle completamente, come fa ai nostri giorni la ricerca scientifica che si occupa della mitologia». E conclude: «La singolarità e la verità rivendicate dalla tradizione giudaico-cristiana sono perfettamente reali, persino evidenti sotto il profilo antropologico» (Ivi, 21).
Il principio di opposizione a tale evidente verità nei vangeli è chiamato Satana, anche se assume diversi nomi con le loro diverse connotazioni: diavolo, cioè divisore, avversario, seduttore, maligno, padre della menzogna, omicida sin dal principio, principe di questo mondo, e tutto ciò che provoca violenza e morte gli fa capo, trova in lui l’avvelenata fonte originaria. Pur non possedendo una consistenza ontologica che potrebbe farne una sorta di dio del male, pur non essendo dotato di un essere personale che la teologia rifiuta di riconoscergli, nei vangeli il nemico divisore è presentato come suggeritore di scandali e fomite di sospetti nei confronti di Dio di cui vuol prendere il posto e del quale grottescamente diventa la “scimmia”, secondo la colorita immagine patristica che ne designa la volontà mimetica di cui è l’iniziatore. Il suo ruolo nefasto nasce dall’invidia e dalla brama di possesso che innescano il meccanismo vittimario descritto da Girard. La sua tracotanza è giunta fino al limite estremo di questo processo rancoroso che ha prodotto lo scandalo della Croce di Cristo, con la conseguenza per lui imprevedibile di trovarsi davanti alla discriminante assoluta tra il bene e il male e alla rottura del circolo vizioso dei determinismi vittimari. Da qui l’orrore suo e dei suoi seguaci per lo strumento di morte che in Cristo è divenuto vessillo di vita e di pacificazione universale. Con l’evento salvifico della Croce il regno dell’accusatore, che è “di questo mondo”, è stato scosso dalle fondamenta. Per tentare di tenerlo in piedi fino al giorno del giudizio Satana non esita a dividere se stesso ingannando i suoi accoliti e suscitando tra essi lotte furibonde che sono sempre state sotto gli occhi di tutti ma di cui l’umanità non si è resa conto a sufficienza. Né ancora oggi se ne rende conto.
La sanguinosa lotta tra le schiere armate islamiche e l’atea cultura postmoderna falsamente da loro identificata con la croce non è altro che quel processo chiarificato da Gesù nei vangeli secondo il principio solo apparentemente contraddittorio per cui «Satana scaccia Satana» (cfr. Mc, 3, 23 - 26), in quanto la divisione è la vera essenza dia-bolica. Il violento processo mimetico-vittimario in cerca di capro espiatorio tende ad identificare capziosamente da parte islamica tutto ciò che è male con la Croce e l’Occidente con i “crociati”; a giustificazione del suo operato teso al “ristabilimento” della pace sociale nonostante l’uso della forza, della violenza e lo spargimento del terrore; metodo preso a prestito anche dalla cultura occidentale che si è ispirata al principio pagano di Machiavelli “il fine giustifica i mezzi”. E il fine di Satana è uno solo: la distruzione dell’umanità, senza distinzione di razze, culture, religioni. Per Girard «le grandi crisi collettive ci conducono al vero mistero di Satana, al suo potere di sorprendere, quello di espellere se stesso riportando l’ordine nelle comunità umane … [poiché] il Satana espulso è la forza che istiga ed esaspera le rivalità mimetiche fino al punto di trasformare la comunità in un crogiolo di scandali. Il Satana che espelle è questo stesso crogiolo allorchè raggiunge un punto di incandescenza sufficiente per scatenare il meccanismo vittimario. Allo scopo di impedire la distruzione del proprio regno, Satana fa del suo stesso disordine, giunto alla fase di parossismo, il mezzo per espellere se medesimo […] Se fosse un semplice distruttore, Satana avrebbe perso il suo dominio da un pezzo. Per comprendere ciò che fa di lui il signore di tutti i regni di questo mondo, bisogna prendere alla lettera quanto afferma Gesù, ossia che il disordine espelle il disordine, ossia che Satana scaccia realmente Satana. Grazie a questa prodezza tutt’altro che banale il principe di questo mondo ha saputo rendersi indispensabile, mantenendo un enorme potere» (cfr. ivi, 57-59).
Ed è questo il potere che Satana offre a Gesù di Nazaret nell’accattivante e melliflua triplice tentazione narrataci dai vangeli (cfr. Mc 1, 12-13: Mt 4, 1-11; Lc 4, 1-13). Non senza aspettarsi come tornaconto l’oggetto più ambito del suo desiderio: l’adorazione. Portatolo su un alto monte mostrò a Gesù tutti i regni della terra e gli disse: «Io ti darò tutto questo, se in ginocchio mi adorerai» (Mt 4, 8-9). Questa smania satanica di essere adorato come Dio è il motore mobilissimo della sua operatività malefica e tanto più efficace perché mimetizzata sotto i panni di una religione che ha proprio nella prostrazione il suo scarno quanto significativo atto di culto.
La risposta di Gesù alla proposta destabilizzante il piano salvifico fu lapidaria quanto decisa: «Vattene via, Satana! Perché nella Bibbia è scritto: Adora il Signore, tuo Dio; a lui solo rivolgi la tua preghiera» (Mt 4, 10). Nella redazione lucana troviamo una significativa aggiunta: «Il diavolo allora, avendo esaurito ogni genere di tentazione, si allontanò da Gesù, ma aspettando un altro momento propizio» (Lc 4, 13) che fuor di metafora sarebbe stato quello della passione e della Croce. Non prevedendo però Satana la sua sconfitta nella forma di quel culto sconfessante e destabilizzante il suo.
Ciò detto si comprende che il monoteismo non è declinabile al plurale e che l’unico vero Dio è quello mostratoci da Gesù Cristo: il Dio della vita, amante degli uomini che ama nel suo unico Figlio e che ammanta ed illumina con la forza del suo Spirito perché non corrispondano alle suggestioni del male ma compiano le opere del bene, rispondendo all’odio con l’amore e alla vendetta col perdono. Un discorso duro, che supera i limiti di un edulcorante dialogo che lascia le cose così come stanno provocando soltanto illusioni.
Sicuramente i progettisti dell’edificio berlinese non rinunceranno facilmente al loro progetto. Si può suggerire loro uno spunto per l’apparato iconografico, evidentemente nella “zona cristiana”: una rivisitazione in chiave postmoderna, o postcristiana che è lo stesso, dell’affresco di Luca Signorelli nel duomo di Orvieto illustrante La predicazione e i fatti dell’Anticristo, ove le scene di corruzione, di massacri e di morte ad opera del satanico personaggio sono una profetica prefigurazione degli effetti della falsa religione che stiamo sperimentando ai nostri giorni.
lds, L'Europa e le sue religioni: La confusione dei “monoteismi”.
La super-religione: prendi tre, paghi uno!
23.7.2016 (scritto per Stauropolis.com - titolo, sottotitolo e grassetti redazionali).