Io prima di te - STAUROPOLIS

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D'altraParte
  IN SICILIA CI SI PERDE
Maria Grazia Crescente, Viaggio sentiMentale
per stauropolis.com 8.12.2016

In Sicilia ci si perde. Nella sua bellezza, innanzitutto. Fatta di abbacinante luce, di colori inediti e implacabili quanto la sua calura estiva. Ci si perde nella magnificenza delle opere d’arte, nella sconfinata profondità dei molteplici paesaggi. D’altra parte, già nel 1787, Goethe sosteneva che “l’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto”. È questo, sicuramente, il dono del viaggio in Sicilia. Inaspettato.

Il viaggio racchiude in sé la dimensione della libertà, rimanda ad un cammino non esclusivamente legato allo spostamento cinetico, restituisce, anche e soprattutto, ad un percorso mentale, il viaggio interiore, che prende il via da un luogo materiale per arrivare a mete inaspettate del cuore e dell’anima.
Più prosaicamente, in questo percorrere fisico, aiuta poter fruire di tratti di strada, specie in auto, che non mettano costantemente in pericolo la vita - sottraendo alla metafora i versi di Haracourt per il quale “partire è un po' morire” - o, quanto meno, poter contare su indicazioni stradali semplici ed efficaci, evitando di ritrovarsi, sperduti, mentre il tomtom indica svolte in luoghi inesistenti.
Scherzi a parte, se vi capitasse di percorrere le “strade”- il virgolettato è d’obbligo - della Sicilia sud-orientale, per arrivare a Ragusa Ibla o fino a Marzamemi, Capo Passero… beh, rassegnatevi a girovagare senza confini temporali, profittando per fare un Grand Tour non previsto, tra la segnaletica che appare e scompare o che addirittura suggerisce informazioni, al contempo, divergenti. E, in effetti, il capitolo segnali stradali, e viabilità in generale, quaggiù risulta non poco problematico, o, volendo essere più indulgenti, creativo. Così, e ancora: in Sicilia ci si perde.

Ma se, per un motivo o un altro, il vostro taccuino non prevede di girovagare senza tempo né meta, raggiungere un posto definito è davvero impervio. Non che la parte sud-orientale dell’isola sia la sola area dove la segnaletica ti abbandoni all’improvviso nel nulla, semplicemente in quella zona mi è capitato più di frequente. Nei fatti, la Sicilia offre dappertutto scorci di ponti crollati, viadotti interrotti, strade incompiute, autostrade così denominate solo per un audace omaggio alla fantasia, altre addirittura immaginarie. La “Siracusa – Gela”, ad esempio, dopo averti illuso, dolcemente, per un tratto di circa 40 km, si interrompe, di colpo, a Rosolini lasciandoti con la sensazione di essere stato sedotto e abbandonato. Per non parlare delle super-strade con l'asfalto rattoppato non meglio di certi jeans di "tendenza" sdruciti, o, di quelle con i cantieri, eternamente aperti, ma dove non lavora nessuno. E se, dopo una sbandata o un banale pattinamento dell’auto su due gocce d’acqua, sei fortunato e riesci a rimanere in vita dovrai provare tu che, a fronte della loro negligenza, avevi messo in campo tutta la perizia e le regole imparate alla scuola guida. Dopo un’interminabile vicenda giudiziaria contro l’ente stradale di riferimento ti ritroverai, ben che vada, con un risarcimento ridicolo e, insieme al danno, la beffa di qualche problema fisico che ti farà compagnia per il resto dei tuoi giorni, non senza l’amara consapevolezza che di giustizia ce ne sia rimasta ben poca.

Dalle mie parti, se per strada c’è un fosso o, semplicemente, un intoppo, lo delimiti con un bel nastro segnaletico, bianco e rosso, per lavori in corso e lo abbandoni al degrado successivo. Un esempio concreto? Quel tombino al centro dello snodo principale di San Leone di Agrigento: ormai da qualche anno, ininterrottamente, recintato dal nastro di cui sopra. O ancora, sempre nella stessa amena località balneare, diversi tratti di strade - cosiddette secondarie che si inerpicano tra villette e cumuli di immondizie abbandonate, frutto del civile comportamento di ottimi cittadini - sono ridotte, da tempo immemore, a metà corsia a causa di crolli di una parte della carreggiata. Ma di esempi come questi, se ne potrebbero citare a iosa. In compenso, in aiuto ci viene la politica, di qualsiasi orientamento, che, per ogni rattoppo, di tratti stradali crollati, ovvero collaudati e infine chiusi per pericoli vari, organizza inaugurazioni autocelebrative del niente, per poi tentare di blandire le masse con il tormentone della costruzione di un faraonico ponte sullo Stretto. Tutti esempi di vetrine acchiappavoti per qualsiasi futura o prossima campagna elettorale.

Infine, come tralasciare il capitolo autovelox?! Il fortunato automobilista di turno, ha spesso la straordinaria ventura di incappare su percorsi stra-monitorati dal controllo elettronico della velocità. Creati come apparecchi utili a vigilare - sul giusto e severo controllo delle norme e dei limiti di velocità, al fine di garantire e proteggere la vita umana e prevenire i troppi incidenti sulla strada - sono divenuti, oggi, assai spesso, lo strumento più efficace per rimpolpare le casse di Comuni in deficit finanziario. Talvolta, quasi nascosti o collocati addirittura a lato della corsia di sorpasso (vedi viale Regione Siciliana a Palermo), sembrano più il frutto scaltro di una truffa legalizzata, piuttosto che un valido dispositivo atto a prevenire che la vita umana vada sprecata sul pedale dell’acceleratore. A condire tutto, cattiva volontà e cecità di noi cittadini incapaci di praticare doveri e reclamare diritti, in una terra che sembra aver optato per un’avocazione a terzi della propria dignità, o per dirla con le parole di Tomasi di Lampedusa “… i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.



  AMARE E' UN'ALTRA COSA
Maria Grazia Crescente, a margine del film "Io prima di te".
per stauropolis.com 28.9.2016

“Io prima di Te”, film presentato in questi giorni nelle sale italiane, come una pellicola di genere romantico/drammatico, racconta la storia d’amore tra Louisa Clark, una ragazza, di modesta estrazione sociale, e Will Traynor, un giovane ricco banchiere, divenuto tetraplegico a causa di un incidente, a cui la donna deve fare da assistente. Il film, discreto prodotto commerciale dalla confezione accattivante, possiede i requisiti della classica commedia romantica, ad iniziare dalla scelta dei due attori protagonisti che, nella caratterizzazione dei personaggi interpretati, sembrano la raffigurazione del “Principe Azzurro” e della “Cenerentola” di turno.

La storia parte dall’iniziale diffidenza/scontro tra i due. Lui, altero e gelido, indifferente e quasi sprezzante, chiuso nella sofferenza della sua disabilità; lei, allegra e ingenua, buffa, nelle sue mise psichedeliche, che tenta, continuamente, di scuoterlo dalla sua rinuncia alla vita. Il loro rapporto si svilupperà, pian piano, verso una relazione di stima e affetto che si trasformerà in amore. Sullo sfondo di tutto questo emergono temi forti, quali la malattia, la disabilità, il dolore, l’eutanasia. Will, alla fine, deciderà che una vita da disabile non è una vera vita e sceglierà di porre fine alla sua esistenza in una clinica svizzera - dove la pratica dell’eutanasia è legalizzata - nonostante il profondo amore che dice di provare per Louisa, che sino alla fine gli resterà accanto, pur non condividendo la sua scelta.

Il film, presentato (ahimè), anche alla rassegna cinematografica per ragazzi “Giffoni Film Festival”, sta sbancando gli incassi al box office e avrebbe potuto descrivere davvero una delicata storia d’amore e di buoni sentimenti. Ma è bene dirlo subito, ci hanno spacciato piombo per oro. Non si tratta né di un film d’amore, né di un film sincero, e non è certo per la mancanza del lieto fine. Ma, cosa più importante, impone una domanda seria sul tipo di messaggio che lascia alla fine. Soprattutto, per le giovani generazioni.

Da sempre sono convinta che l’amore sia la forza più potente, la scintilla divina che è in ognuno di noi, capace di farci scalare qualsiasi montagna o di affrontare qualunque sfida. Ora… non voglio essere superficiale, né tantomeno offensiva e, premessa doverosa, non ho la più pallida idea di cosa possa significare essere inchiodati ad una condizione di immobilità, nella quale dipendi totalmente dagli altri, tra slanci generosi d’affetto familiari e pari stanchezze, pietismo e sopportazione reciproche. Non conosco il dolore senza tregua e non mi permetto di dire nulla sulla sofferenza inimmaginabile di malattie senza speranza. Eppure, ho l’ostinata convinzione che, qualunque sia la condizione in cui ti trovi a vivere, la differenza la faccia l’Amore.

L’Amore trasforma tutto. Amore donato e ricevuto. E, a pensarci bene, soprattutto l’amore che ricevi cambia tutto. Ti cambia dentro, ti rende una persona migliore. Se ti senti amato, tutto si muove secondo coordinate di bene-essere e senti di essere davvero qualcuno. Qualcuno per un Altro che dia valore al tuo esistere, nel cui sguardo perdersi e riflettersi per vedersi, come in uno specchio magico, più belli, più felici, completi. Senti di esistere e di non trascinarti, semplicemente, nella vita. Di vivere veramente una vita degna di tale nome.

Ma, a parte il lato romantico, ho compreso quanto l’amore sia anche responsabilità. Dell’altro, innanzitutto. Cura, attenzione, fatica. Soprattutto, quando non tutto fila per il verso giusto, quando si ha voglia di gettare la spugna e di arrendersi. Lì, in quel momento tra la disperazione e il desiderio di fuggire, sta la forza indomita del vero amore, capace di sostenere pesi insopportabili e di rilanciare, con audacia, sfide impossibili. Ce lo hanno insegnato le notti insonni delle nostre madri, l’abbraccio di un amico nel momento di sconforto, ma anche il semplice sguardo della persona amata, capace di restituirci energie inaspettate. L’amore deve essere più forte proprio quando c’è il pericolo che s’incrini. Come nella vignetta di quella coppia di anziani coniugi che siedono su di una panchina sotto la pioggia voltandosi le spalle, risentiti l’una verso l’altro. Eppure, lui allunga il braccio con l’ombrello aperto per riparare lei dalla pioggia. Non cambia lo stato d’animo, ma persino quando non “senti” di amare, scegli di continuare a prenderti cura dell’altro, manifestando nei fatti e, non a parole, l’amore che non si arrende. In questa prospettiva anche la malattia, la sofferenza, la disabilità, affrontati insieme a qualcuno che ci ami, diventano meno insopportabili, meno disperanti.

Il dolore, la fragilità, l’handicap sono misteri impossibili da accettare per la nostra mente. Per una società, come la nostra votata all’efficientismo, alla velocità e alla tensione verso tutto ciò che è facile, sono qualcosa da rimuovere in fretta, talmente in fretta che si arriva a “gettare via il bambino insieme all’acqua sporca”. Non ci si può considerare veramente vivi quando si è malati, sofferenti, fragili, di peso agli altri. Non è vita! e novelli spartani, ma più inclini alla ipocrisia delle parole e delle forme (non ci sogneremmo mai di abbandonare a morire, cruentemente, bambini deformi o malati o deboli sul Monte Taigeto), aggiustiamo le parole e ci serviamo di un linguaggio che nasconda la verità, soprattutto a noi stessi. Così per indicare l’assassinio in grembo di un bambino la definiamo interruzione di gravidanza e in questo linguaggio diabolico la parola bambino diventa feto; invece di dire suicidio/omicidio assistito parliamo di eutanasia e così via. Ma attenzione, in tutte queste operazioni di morte ci si attiene, scrupolosamente, a garantire protocolli rigidissimi e a mettere a disposizione l’ausilio di figure di supporto tra infermieri, medici, psicologi ecc. che non sono altro che la manifestazione di timori rivolti non esclusivamente a dare un supporto alla fragilità umana, ma anche, se non soprattutto, ad evitare eventuali problemi legali.

Nel film la clinica svizzera dove si pratica l’eutanasia non viene mai ritratta, viene invece presentato, grazie all’uso di una scaltra fotografia, un ambiente luminoso, rassicurante, persino pacificante dove Will e Louisa possano dirsi romanticamente (?) addio. E qual è il messaggio che passa? Che la vita vale la pena di essere vissuta fino a quando sei forte, sano, bello, ricco… ma quando viene meno qualcuno di questi elementi non vale più la sfida. Se per tutta la durata del film la protagonista femminile cercherà in tutte le maniere di salvare lui, facendolo desistere dall’idea di porre fine alla sua esistenza, grazie alla forza del loro amore, lui, lentamente, le imporrà il suo punto di vista. Louisa, fin dall’inizio della pellicola è una ragazza stravagante e non particolarmente brillante, ma è allegra, ed è capace di prendersi cura degli altri, di tutti. Dalla sua famiglia alle persone incontrate al bar dove lavora come cameriera, prima dell’incontro con Will. Capace di empatia e simpatia, di ascoltare gli altri, di vederli. Alla fine, dopo la morte di Will, si ritroverà da sola, ma con un congruo conto in banca, lasciatole in eredità dal giovane disabile, perché lei cominci a pensare a se stessa. Di contro, Will è un giovane uomo di successo, ricco e bello, chiuso nel suo dolore dopo l’incidente che lo ha reso tetraplegico. E nonostante sia coinvolto dall’amore di Louisa e contagiato dalla sua travolgente allegria, fino a desiderare di svegliarsi - sue testuali parole - rimane chiuso nell’egoistica prospettiva del suo dolore, incapace di vedere che anche per lui esiste una possibilità di gioia e sceglie di mettere fine alla sua vita, dimenticando che l’amore che dichiara di provare avrebbe dovuto imporgli la responsabilità verso la ragazza amata, prendendosene cura, accettando di condi-vivere insieme a lei gioia e dolore.

E non è un film sincero. Tutto la narrazione è ricca di continui inviti da parte del protagonista maschile a vivere intensamente questa vita perché è l’unica che abbiamo, a viverla con coraggio, a sfruttarla al massimo perché è un dovere. Lui sprona lei a diventare il potenziale che è. A vivere davvero, per poi rinunciare lui alla vita. D’altra parte cosa ci si può aspettare da un film che fa la sua dichiarazione d’intenti sin dal titolo. “Io prima di te” è la metafora dell’egoismo dei nostri giorni. Dice: Io vengo prima di te, il mio punto di vista, la mia vita viene prima della tua, i miei bisogni, le mie paure , le mie difficoltà vengono prima di te, prima di tutto.
Questo film non racconta una storia d’amore, ma di egoismo. Dove io sono più importante di te. E lo stravolgimento delle parole travolge tutto in una prospettiva rovesciata.

L’amore è un’altra cosa. Segue altre logiche, altre coordinate. L’amore impone a se stessi l’altro, come centro del proprio mondo. Tu vieni prima di me, la tua felicità, i tuoi bisogni, le tue difficoltà sono al centro delle mie attenzioni, tu sei la persona di cui mi prenderò cura. È negli occhi dell’altro che troviamo significato. La reciprocità di questa tensione gli uni verso gli altri, portando gli uni i pesi degli altri, rincorrendo il bene vicendevole. Se ami così, se sei amato così, il personale punto di vista non ha più un valore assoluto. Io dipendo da te e tu da me. Ed ogni mio gesto, per piccolo che sia, influenza la tua vita, la modifica e in qualche modo la costringe a cambiare. Cambiare il punto di vista delle cose partendo dal desiderio di svegliarsi da un sonno di morte per vivere una vita reale.


 
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